giovedì 30 marzo 2017

Land  scape
        e



Il luogo del mio imprinting è casa mia, un po' ovvio, eppure diciamo che l'imprinting è risultato non proprio dalla casa in se, quanto dal rapporto che la casa ha, o forse è meglio dire aveva, con l'intorno. Consideriamo ora la casa come sineddoche.
Fondi è una cittadina nel sud del Lazio con origini preromane in cui da sempre le favorevoli condizioni climatiche e l'abbondante irrigazione hanno favorito un'intenso utilizzo del suolo. L'economia locale è quindi fortemente legata alla produzione e alla distribuzione dei prodotti agricoli, anche se la tradizionale coltura di agrumi è stata soppiantata in anni più recenti da un'intensa coltivazione di ortaggi, primizie in serra e frutta di ogni tipo.
Fondi è sede del secondo centro di distribuzione agroalimentare all'ingrosso d'Europa (M.O.F.), secondo solo a quello di Parigi.
E casa mia ovviamente si trova qui. Un luogo curioso in cui mare pianura lago e collina si incontrano.
Evidente è come l'agricoltura sia di tradizione e come l'uomo viva bene incastrato con la natura che lo circonda, sapendo come utilizzarla, rapportandosi ad essa con capacità ed attenzione.
La terra è un bene e come tale va rispettato, e i fondani lo sanno bene. Quando coltivi la terra c'è un amare, c'è un saper dare per poter poi ottenere, c'è un cooperare da pari quali uomo e natura.
E finchè l'uomo pensava cosi finchè l'uomo riconosceva nella natura una dea feconda e finchè gli interessi non si sono immessi nel decorso delle cose (interessi, non necessità) la natura viveva come terra e non come suolo, dialogando con le città e con l'uomo in un discorso di ciclicità in cui l'uno dava all'altro.
Ma l'aumentare della popolazione e il mutare dei bisogni stringono in un cappio sempre più stretto questo rapporto e questa cultura di rispetto, di utilizzo ma non di devastazione.
La devastazione che arriva quando l'uomo con la sua mano, spesso disonesta, rovina le sue stesse risorse per guadagnare, sicuramente non il benessere. Da ciò ne deriva un uso del suolo smodato rompendo la ciclicità e dirigendosi in un senso unico nel quale la terra darà per l'ultima volta quando verrà seppellita dal cemento. Il cappio così finisce di stringersi soffocando la natura in una stretta di edifici, abitazioni, infrastrutture molte volte pensate male, ed altre volte non pensate.
Ho sentito sul mio nido, questa stretta troppo rapida del costruire l'inutile invece di recuperare, valorizzare e pensare il mondo che ci ospita.
Era una delle poche casette disperse per quella via considerata campagna, era infatti contornata da arance, ulivi, una marea di campi incolti e il nostro orto, correvo per le stradine che erano solo terra battuta, i fossi, le rane, e le cadute con la bici, le pozzanghere e tornare fradicia e i pomeriggi a piantare i semini, ad innaffiare i germogli e a raccogliere le fragole.
E poi nel giro di dieci anni il cappio si è stretto anche attorno alla mia casina, palazzine come funghi recinzioni asfalto dossi cartelli abusivismo strade parcheggi cantieri, il tutto a discapito del verde e dei campi coltivati.
Insomma il mio imprinting è stato dato semplicemente dall'evolversi dei bisogni e dal palesarsi anche nel mio piccolo di evoluzioni e meccanismi mondiali, facendomi percepire come la terra, fagocitata dal terribile uomo, grida alla rivalsa.

Un grido che è rimasto impresso.
caos


il grido 

martedì 7 marzo 2017

Arte Povera:  Lo Sguardo Critico

 PINO PASQUALI

FOTO-RITRATTO
 scattato da Marcello Colitti
nello studio-abitazione di via Boccea a Roma anni 60
Nato da genitori di Polignano a Mare, trascorre l'adolescenza a Bari, dove frequenta il liceo scientifico, ma, già ripetente, si trasferisce e si diploma al liceo artistico di Napoli. Nel 1956 si trasferisce a Roma, dove si iscrive all'Accademia delle Belle Arti e frequenta le lezioni di Toti Scialoja. Dopo il diploma comincia a lavorare come aiuto scenografo alla RAI. Nel contempo inizia una collaborazione, che diventerà poi continuativa, con Sandro Lodolo, realizzando Caroselli, spot pubblicitari e sigle televisive.
Negli anni sessanta partecipa a varie mostre collettive, e nel 1965 realizza la sua prima personale presso la galleria romana La Tartaruga. L'anno successivo espone alla Galleria L'Attico. In soli tre anni ottiene un notevole riscontro da parte della critica e viene notato da influenti galleristi italiani e internazionali.
Artista eclettico, Pascali fu scultore, scenografo e performer. Nelle sue opere riunisce le radici della cultura mediterranea (i campi, il mare, la terra e gli animalila Grande Madre e Venere, il Mare, la Terra, i Campi, gli attrezzi e i riti agricoli ) con la dimensione ludica dell'arte: un ciclo di opere è dedicato alle armi, veri e propri giocattoli ( animali della preistoria, dello zoo e del mare, giocattoli di guerra, il mondo di Tarzan e della giungla, bruchi e bachi, travestimenti, Pulcinella) realizzati con materiali di recupero (metalli, paglia, corde) e molti suoi lavori ripropongono le icone e i feticci della cultura di massa.. Nella serie Ricostruzione della natura, iniziata nel 1967 Pascali analizza il rapporto tra la produzione industriale in serie e natura.
È ritenuto uno dei più importanti esponenti dell' arte povera, fu il primo a formalizzare le pozzanghere con l'acqua vera, da cui nacque la mostra Fuoco immagine acqua terra avvenuta all'Attico nel maggio del 1967.
Traduce questo mondo dell’immaginario in forme monumentali e strutture essenziali, concise, come il romanico pugliese e il bestiario medievale delle sue chiese; ma nel contempo rimandano alle icone della dilagante cultura di massa (il fumetto, il cinema, la moda). realizza le sue “false sculture” con materiali fragili ed effimeri (tela, legno, lana d’acciaio, pelo acrilico, paglia, raffia). In questo modo dà una sua originale risposta critica (italiana e meridionale) alle nuove tendenze che venivano dall’America: la Pop Art, la Minimal Art. Precorre l’Arte Povera, la Body Art, l’arte concettuale degli anni Settanta.
L’11 settembre del 1968 proprio all'apice della sua carriera, mentre alcune sue opere erano in mostra alla Biennale di Venezia, muore prematuramente a Roma nel 1968 per le conseguenze di un grave incidente in motocicletta, sua grande passione. La sua tomba si trova nel cimitero di Polignano a Mare.


SOVVERTIRE LA SCULTURA

LA RICOSTRUZIONE DEL DINOSAURO, 1966
foto scattata alla Galleria D'Arte Moderna, Roma
Per celebrare l’80esimo anniversario della nascita dell’artista pugliese, la Fondazione-Museo Pascali di Polignano a Mare ospita Dialoghi. Una mostra che pone a confronto la generazione di artisti degli Anni 30, attivi tra Roma e Milano nella fervente stagione creativa tra la fine degli Anni 50 e i primi Anni 60, e che hanno determinato la storia dell’arte italiana.Una selezione di opere non ampia ma significativa, che comprende la “finta scultura” di Pascali, giunta in Puglia dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. 
Io fingo di fare delle sculture, che non diventino quelle sculture che fingono di essere: voglio che diventino una cosa leggera, che siano quello che sono 

Così Pascali sovverte i canoni classici della scultura, privandola di due fattori essenziali: il peso e la sacrale monumentalità. Inizia invece a concepire le “finte sculture”: le immagina sin da subito monocrome, bianche o nere, e adopera una tela bianca disposta con una certa tensione sulle centine sottostanti per evidenziarne la struttura, lo scheletro di base. Se Manzoni, Bonalumi e Castellani proseguiranno una ricerca legata all’azzeramento della forma a favore dello spazio, a Pascali toccherà invece il compito di “ricostruire” un nuovo concetto di scultura partendo radicalmente da un punto zero.

L’ARTE COME INAUTENTICITÀ

Interpretando l’arte non come falsificazione ma come “luogo dell’inautentico per eccellenzae come “la più bella rappresentazione della menzogna, Pascali attraversa le avanguardie dello Spazialismo e il relativo annullamento del linguaggio visivo: l’astrazione formale in Fontana, la concettualità e aniconicità nelle estroflessioni di Bonalumi e Castellani, gli Achromes di Piero Manzoni. Ne assorbe i principi fondanti ma li reinterpreta in base al proprio immaginario e schivando l’invasione della Pop Art, attraverso la purezza delle forme e la veemenza espressiva di un mondo archetipico mediterraneo primitivo e unico.


  32 mq di mare circa (1967)

Le prossime cose che voglio fare sono delle cose di acqua… l’acqua mi affascina molto, diventa come uno specchio, ha tante cose l’acqua”

foto scattata alla Galleria D'Arte Moderna, Roma
Opera complessa ed elementare allo stesso tempo, 32mq di mare circa riassume il poetico confronto di Pascali con una natura da riconcepire e progettare, in un gioco dualistico tra gli elementi naturali, in questo caso l’acqua, e i materiali industriali, ovvero le vasche di lamiera che la accolgono. La sua propensione al paradosso emerge in quest'opera e traduce i dati cognitivi del reale in dati surreali. L'estensione della distesa azzurra, la cui intensità cromatica varia a seconda della quantità di colorante diluito nell'acqua, è ridotta a dimensioni quasi precise, inscatolata in multipli assemblabili a piacere. Il conflitto tra natura e artificio, che alla metà degli anni sessanta iniziava a turbare le coscienze collettive, perde qui la sua componente aspra e drammatica e finisce per diluirsi in una dimensione ironica e giocosa

Pascali, al lavoro nel museo per sistemare i "32 mq di mare circa"
30 vasche di alluminio zincato e acqua colorata all'anilina, cm. 113 x 113 ciascuna.

Foto scattate alla Galleria D'Arte Moderna, Roma




Fonti:  http://www.museopinopascali.it/biografia-pascali/















 Lo Sguardo Critico

FRANK GEHRY



«Quand' ero bambino restavo spesso seduto accanto a mio nonno per leggere il Talmud, [...] la cosa più interessante nel Talmud è che vi si pongono sempre delle domande: "Perchè non altrimenti? E com'è fatto? Come funziona?". Così, sin dall'inizio io ho avuto una sorta di curiosità, di volontà di porre delle questioni...»

Gehry, Frank O. (propr. Ephraim Owen Goldberg) architetto canadese naturalizzato statunitense è tra i più influenti progettisti contemporanei. Gehry inizia con una serie di progetti nei quali la ricerca decostruttiva assume una densità assolutamente particolare; la sua ricerca è caratterizzata da un processo di scomposizione dell'edificio in unità volumetriche, riassemblate poi con una solo apparente illogicità, e dalla predilezione per le linee oblique e per materiali spesso inusuali (rete metallica, lamiera ondulata ecc.). 
Coevo o addirittura in anticipo sul lavoro dei Five, Gehry produce in una quindicina d'anni una serie di costruzioni che scavano la logica modernista lasciandone implodere gli elementi attraverso la segmentazione delle componenti e delle funzioni.


L'austerità dello Studio Danziger a Hollywood e della Gemini G.E.L. Gallery, come la Casa Davis e la Wagner Residence a Malibou, su fino alla sua celeberrima abitazione a Santa Monica, organizzano un sistema di spazi complesso a partire da una lettura intelligente dell'one-room building di Philip Johnson: l'interno delle abitazioni esplode letteralmente sull' esterno, decostruisce la facciata, detronizzando così la scena borghese della città composta da quinte teatrali che ne raccontino il mito o ne veicolino i messaggi commerciali: nel lavoro di Gehry  l'oggetto architettonico è decostruito e parla dunque attraverso le diverse stratificazioni dei suoi spazi e dei suoi materiali.
Casa studio Danziger Hollywood 1964-65

Gemini G.E.L. Gallery, Los Angeles

Gehry Residence, Santa Monica  1978 
Incomprensibile sarebbe questo primo complesso di progetti senza tener conto della cultura pop delle spiagge di Los Angeles, intrecciata alle caratteristiche del landscape californiano: con i suoi deserti e le sue colline, il pacifico e le sue spianate di natura selvaggia, le autostrade e i centri commerciali. Impossibile immaginarne la traiettoria senza tenere in conto le fotografie prese dallo stesso Gehry, a spasso per la zona industriale di Santa Monica, nel 1970. Oggetti apparentemente banali che restituiscono l'immagine del territorio americano in termini di «eredità epica» della «totalità fantasmatica» incarnata dagli spazi delle fabbriche e dei distretti in abbandono: assi di legno, reticoli in acciaio, ondulati in plastica costituiscono così i primi materiali, l'arte povera, con la quale il lavoro dell'architetto cerca di esprimere la natura dell'industria e della sua parabola nel secondo Novecento. I prodotti di massa divengono qui componenti vitali, la vita li decostruisce e ricompone in un movimento che va dall'interno verso l'esterno destituendo così la morfologia banale e immediata degli edifici di qualsivoglia importanza. Nessuna marca stilistica e alcun camuffamento ideologico, assilla questi progetti, che perciò ci paiono così importanti. In seguito, nel decennio '80-'90 Gehry inizia a comporre gli edifici per volumi elementari, marcati essenzialmente dalla specificità dei materiali utilizzati, dall'intonaco allo zinco, dalla pietra al rame, come in una successione di nature morte di Giorgio Morandi.



Tutt'altro lo spettacolo che ci si para davanti ai primi anni Novanta. Come è noto Frank Gehry è colui che ha colto la sfida di portare a compimento la completa negazione dell'oggetto architettonico, secondo molti, avendo egli per primo compreso tutta l'importanza e le implicazioni dirompenti dell'utilizzo dell'informatica 3D per l'architettura. Almeno a partire dal 1992, infatti, Gehry chiede alla Dessault Systèmes, azienda specializzata in software per la costruzione dei Boeing e dei Mirage, di adattare il loro programma CATIA alla progettazione di edifici. Qui è la svolta. Gehry inizia a realizzare schizzi, costruisce plastici estremamente imprecisi - e terribilmente infantili - che poi inserisce nel computer. Da CATIA nascono dunque i tanti progetti così come il celeberrimo museo Guggenheim di Bilbao. Ed ancora tutti gli edifici del decennio successivo: corpi sottoposti a forze che ne piegano le forme, ne frammentano le singole parti, ne spezzano continuamente la monolicità, e aprono all'ambizione di risolvere l'architettura in un atto scultoreo. 




Centro culturale per le tre religioni monoteistiche
 Laboratorio di progettazione III - Prof.ssa G.Salimei

 Il progetto si sviluppa con lo scopo di creare un luogo di aggregazione dove ciascuno possa esercitare la propria fede, un luogo in cui diverse culture si incontrano con la libertà per ognuno di mantenere comportamenti e usanze del proprio culto. 
Il recinto, spezzato da una linea netta, abbraccia la corte innalzandosi 
dalla quota terrena dei luoghi di culto verso l'alto.